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[SPECIALE] LA ZONA D’INTERESSE | It’s All True

Titolo originale: The Zone of Interest
Regia: Jonathan Glazer
Anno: 2023
Produzione: Regno Unito, Polonia

una recensione a cura di Alessandro Cellamare

Talvolta – purtroppo di rado – si assiste in campo cinematografico a “spettacoli” completamente nuovi, con titoli che valicano le frontiere del visibile, dell’immaginabile e del narrabile raccontando nuove prospettive, con coraggio e audacia. Non si tratta necessariamente di provocazioni fini a se stesse, ma di pensieri diversi, messi in scena ad arte per suggerire nuove emozioni e riflessioni.

È il caso dell’ultimo lavoro di Jonathan Glazer, La zona d’interesse, premiato a Cannes col Gran Premio della Giuria, che, per la prima volta in molti decenni di rappresentazioni dei crimini della Shoa, sposta la telecamera dall’altra parte del muro, letteralmente: una famiglia di nazifascisti vive accanto al campo di concentramento di Auschwitz, da esso separata da alte mura che impediscono la visione di quanto accade ogni giorno: le uniche immagini sono quelle delle alte torri che emettono il fumo dei forni, e solo le voci e le urla sono ben chiare seppur distanti. Madre, padre (Rudolf Höß, comandante del campo) e bambini vivono la loro quotidianità, cesellata solo di tanto in tanto da azioni legate blandamente ai crimini in corso, come nelle scelte degli abiti sequestrati agli ebrei o reprimende nei confronti della servitù. Fuori da quell’area, il protagonista gestisce affari con fornitori che propongono nuove idee edilizie per ottimizzare le cremazioni oppure si scontra con le altre autorità gerarchiche e col richiesto trasferimento in altra zona di lavoro.

Il genocidio? Completamente fuori campo per l’intera durata del film, di cui esiste solo l’eco, il suggerito, il dedotto.

La zona dinteresse img 1 ale c

Lo sguardo dello spettatore viene frustrato giacché strappato via da quanto accade e sente moralmente necessario mostrare – non lo faceva già Haneke con Funny Games? – ma non solo: lo stesso sguardo viene forzato verso una quotidianità glaciale e senza empatia cui non era abituato, che non crede possibile, cercando di chiudersi di fronte a quel doppio orrore: la visibile consuetudine del popolo tedesco e l’invisibile mostruosità dietro le mura. Ma l’obiettivo di Glazer non termina qui, in questo gioco ansiogeno che suona più di tecnica cinematografica che di contenuto. Dopo un’oretta circa ci si accorge che la quotidianità è diventata nostra: ascoltiamo urla, voci, colpi di pistola lontani non più con lo “sguardo” terrorizzato e inorridito di poco prima, ma come uno sfondo sonoro al pari di quello di un cantiere cittadino che ci abituiamo a sopportare mentre lavoriamo in ufficio o facciamo lavori in casa. Lo sguardo escluso comincia ad arrendersi, si sposta sulle vicende dei tedeschi e sulle loro faccende, come in un Grande Fratello neanche così tanto interessante. A tratti si ripensa a quanto sta davvero accadendo, ma è quasi più razionalità che empatia. Non si diventa complici, ma si comincia a comprendere quella realtà agghiacciante di cui si sente parlare dai tempi di Hannah Arendt e che mai era stata rappresentata tanto bene al cinema come in questo incredibile titolo di stampo hanekiano. Ci si sente sporchi, chiedendosi fino a che punto saremmo capaci di abituarci mentre il contesto fa il resto.

È questa la vera zona d’interesse.

A chi risolve la questione credendo che ci siano sostanziali differenze tra uomo e uomo, e che il film sia solo finzione e rappresenti parzialmente la realtà, è d’obbligo la visione dei due folgoranti, antropologici e disturbanti film-documentario di Joshua Oppenheimer, The Act of Killing e The Look of Silence. E non è un caso che la misteriosa sequenza finale del vomito di Rudolf Höß sia una replica di quello di uno dei carnefici nel primo dei due titoli, in una sorta di consapevolezza ritardata che (forse) “salva” l’essere umano da un giudizio impietoso.

No way out. It’s All True.

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