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[SPECIALE] PERFECT DAYS | La cura dal/del benessere

Regia: Wim Wenders
Anno: 2023
Produzione: Giappone, Germania

una recensione a cura di Alessandro Cellamare

Wim Wenders torna in campo, passando per la 76esima edizione del Festival di Cannes, con Perfect Days, opera minimalistica e poetica che lavora per tratteggi e rifiuta le canoniche strutture di trama dei prodotti mainstream.

Il capolavoro del regista?

Il protagonista, Hirayama, è un uomo solitario, di pochissime parole, dedito a un’attività regolare e ripetitiva (pulitore di bagni pubblici); ascolta, lungo i tragitti in furgone tra un locale e l’altro, vecchia musica rock su audiocassette, osserva persone, paesaggi urbani, fotografa la natura ai giardini con un’obsoleta macchinetta fotografica a pellicola, usa le lavanderie a gettoni, cura le sue piantine, legge un libro per volta e si soddisfa di quanto ha, vede e sente.

Verrà spiazzato lo spettatore che si attende un punto di svolta allo scoccare della prima mezzora, perché semplicemente non ci sarà. I piccoli accadimenti del vivere ne prenderanno il posto, minuscole novità, personaggi minori, ma niente di dirottante, nessuno sconvolgimento, né grande consapevolezza: solo del sale e, ogni tanto, pepe q.b. per tenere alta l’attenzione su quanto la vita già dà di interessante. È forse qui la vera chiave del lavoro di Wenders: buttare luce sulla complessità – e a volte completezza/compiutezza – di ciò che ci circonda in ogni attimo e non siamo più capaci di osservare con gli occhi meravigliati e ammirati di un bambino o, in alternativa, della nostra parte più genuina e meno costruita. Perfect Days non è, dunque, un inno alla schematicità e alla ripetitività, ma un indice puntato su quanto – tanto! – già è in atto attorno a noi, che dia ricchezza e pienezza al vivere.

Audacemente, un surrogato del punto di svolta compare a due terzi della proiezione, qualcosa di nuovo accade per davvero, scossette emotive, qualche indizio su un passato non del tutto chiaro e una trasformazione del personaggio riassunta nel primo piano finale di Hirayama: alternanze di sentimenti sfilano nella caleidoscopica interpretazione mimica di Kōji Yakusho, e una più completa autenticità e visione diventa l’approdo del personaggio e del film.

Perfect Days img 1 ale c

È di certo un grande azzardo, questo titolo di Wenders, senza retorica ma, chissà, forse anche furbo nel caricarsi di una stizza condivisa nei confronti di un mondo high-tech ad alta velocità che sembra proiettato unicamente a sfidare complessità per cercarne altre e spostarne oltre il limite: una caccia che a tratti perde di mira la necessità, il vero scopo finale, e si compiace solo dell’abilità del “saper fare”. E il cinema, anche d’autore, non ne è da meno, con un ringraziamento speciale a Christopher Nolan.

Resta, tuttavia, qualche perplessità, non tanto sulle lodevoli intenzioni del regista tedesco quanto sui risultati del suo autorevole haiku. Alla pellicola sembra venir meno la poesia proprio quando esce dai momenti di contemplazione del protagonista, e gli innesti mnemonici in bianco e nero appaiono più come dei tentativi di ripristino faticosi e non riusciti. Gli manca, in altre parole, una costanza nella liricità, di cui peraltro Wenders è stato in tempi lontani esecutore formidabile, prima visivamente e poi narrativamente. In Perfect Days è quel poco di narrato (parte finale esclusa) a non reggere l’altezza del figurativo, dello sguardo poetico del protagonista, fatto di musica e visioni, e l’haiku diventa una poesia più lunga, meno carica, densa, che perde l’essenzialità ma allo stesso tempo non atterra in una nuova struttura compiuta.

È forse questo il limite di un’opera che ha conquistato a Cannes solo la statuetta per l’attore?

In attesa di scoprirlo, nebulizziamo un piccolo acero in vaso e sdraiamoci accanto con un buon libro zen.

Perfect Days img 2 ale c
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