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[SPECIALE] PERFECT DAYS | La liturgia del quotidiano

Regia: Wim Wenders
Anno: 2023
Produzione: Giappone, Germania

una recensione a cura di Elena Pacca

Oh freedom is mine
And I know how I feel
It’s a new dawn
It’s a new day
It’s a new life
For me
And I feeling good

Partiamo dalla fine, dalla voce roca di Nina Simone che ci canta and I’m feeling good. Siamo in macchina con Hirayama, il protagonista, che sta guidando. Guardiamo dritto quegli occhi declinarsi in una teoria di emozioni e rimaniamo lì attaccati a lui, dopo due ore di film, leggiamo i titoli di coda e scopriamo una parola nuova “komorebi”* e il senso di quanto abbiamo visto è anche quello. Viva l’arte, la letteratura, la musica, il cinema, la poesia, le ombre, *la luce che filtra tra le foglie degli alberi e la curiosità e la voglia di essere ogni giorno un po’ più nuovi.  

Svegliarsi al rumore di una scopa di saggina che spazza il marciapiede sottostante, ripiegare il futon, il piumone e riporre tutto in un angolo, lavarsi i denti senza sprecare acqua inutilmente, aggiustarsi i baffi con una forbicina, rinfrescare le piantine con uno spruzzatore, indossare la tuta da lavoro, allacciarsi l’orologio al polso, prendere degli spiccioli dallo svuotatasche, uscire di casa per andare al lavoro.

Wim Wenders ritorna in Giappone, a Tokyo precisamente, dove facciamo la conoscenza del silente Hirayama/Kôji Yakusho (Palma d’Oro a Cannes) che vive in un mondo a parte, tutto suo. Addetto alle pulizie al servizio del The Tokyo Toilet, esce la mattina presto, prende una lattina di caffè dal distributore automatico sotto casa e sale sulla sua auto furgonata per raggiungere, presumibilmente da una delle tante periferie della città, il quartiere di Shibuya dove l’amministrazione cittadina ha commissionato ad alcuni famosi architetti la realizzazione di servizi igienici pubblici tecnologicamente all’avanguardia e notevoli stilisticamente.

Perfect Days img 1 elena

Inizialmente siamo quasi a disagio nello scrutare l’intimità dell’uomo, la sua quiete domestica, i suoi gesti ripetuti. Ci pare quasi un pedinamento indiscreto, entrare con lui mentre pulisce i bagni, si inginocchia sulla tazza del water e sfrega o mentre raccoglie i residui di carta da terra. Lui si muove sicuro e lieve, attraversa la città sino a compimento del turno. In realtà è lui che ci conduce nel suo viaggio quotidiano dal risveglio all’ora di andare a dormire. La sua giornata è scandita da una ritualità composta. Hirayama possiede un‘etica del lavoro, quale esso sia. Ogni lavoro ha la stessa dignità e merita il medesimo rispetto e deve essere eseguito con precisione e professionalità. Ma si concede dei piccoli lussi cui non vuole rinunciare, come la sosta al parco a fotografare i raggi del sole che attraversano le chiome degli alberi, il solito pasto nel solito posto dove ricambia sorrisi aperti, il bagno pubblico dove lavarsi e rilassarsi, il locale dove bere qualcosa e ascoltare la proprietaria cantare la struggente versione giapponese di The House of the Rising Sun, leggere alcune pagine di un classico prima di addormentarsi e posare gli occhiali a terra. E iniziare a sognare.

Nonostante i giorni apparentemente uguali, nessuna noia o peggio alienazione; Hirayama assapora convintamente ogni istante, perché la prossima volta è la prossima volta e adesso è adesso. L’irripetibilità di ogni momento fa sì che ciò che può sembrare uguale sia in realtà diverso. Basta saperlo osservare. Basta accorgersene. Nel suo essere lateralmente spettatore del mondo in realtà è molto più presente a se stesso di tanti altri. Nei confini del suo mondo anacronistico Hirayama giorno dopo giorno sa darsi un suo scopo, persegue una piccola tenace ricerca della felicità.

Perfect Days img 2 elena

E se le parole scarseggiano, se prevalgono i gesti, i cenni del capo, gli sguardi, si capisce da subito che la sua quasi totale afasia nasconde in realtà un intenso dialogo interiore, in cui si inseriscono le voci delle rock band degli anni ‘60/’70 che ascolta grazie alle storiche cassette che inserisce sulla sua autoradio durante i percorsi lungo le strade di Tokyo o quelle degli scrittori dei libri a 100 yen di cui si rifornisce in una vecchia libreria. E saranno proprio quelle canzoni e i libri della sua biblioteca domestica a creare un ponte di comunicazione con la nipote adolescente, scappata da casa – da un contesto agiatissimo, come vedremo, ma inospitale – per rifugiarsi proprio da lui, quello zio che inizialmente nemmeno la riconosce dato il tempo passato.

Wenders delinea un Giappone che è quasi un non luogo. Il minimalismo registico non è mero stilema formale attinto da alcuni canoni – quando non stereotipi – nipponici, ma concretamente sostanziale. E il presente di Hirayama è atemporale. Il mondo fuori resta fuori dal suo orizzonte. E il suo mondo è invece un mondo più pulito dove la pulizia non passa necessariamente da spazzoloni e spugne, ma da un nitore d’animo contagioso e necessario. Saremmo in grado di approcciare la vita in questo modo? Difficile a dirsi. Però è comunque una possibilità. Chiamarsi fuori per vivere non avulsi dal mondo, ma con un’altra modalità di accesso a quello stesso mondo. Senza isolamento o reclusioni volontarie, senza indugi nostalgici o conservatori, perché poi anche dinanzi a sconosciuti che confessano un dolore e azzardano il mantenimento di una promessa vale la pena fermarsi a giocare a pestarsi le ombre o a confutare una teoria sulla tonalità della loro sovrapposizione.

Perché per Wenders è come se lo stato delle cose fosse ormai un distillato che trova la sua ragione definitiva in uno schema privo di orpelli, che bandisce il superfluo e si arrischia a dire che l’essenziale è visibilissimo agli occhi di chi ne sa riconoscere il valore nelle cose di tutti i giorni, nell’ordinario e nell’imprevisto.

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