Titolo: Rapito
Regia: Marco Bellocchio
Anno: 2023
Produzione: Italia, Francia, Germania
Titolo: Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi
Regia: Mark Lewis
Anno: 2022
Produzione: Regno Unito, Italia
una recensione a cura di Alessandro Cellamare
A valle della visione di Vatican Girl – docuserie Netflix sul caso della scomparsa di Emanuela Orlandi – e dell’ultimo film di Bellocchio, il pensiero e i sospetti vanno ai concetti di “trend” e “hype”, cioè l’emergere di attenzione, attorno a temi o persone, scatenata da scottanti attualità. Nonostante sia compito della critica anche l’indagine del cinema come sintomo della contemporaneità, il rischio di avvitarsi attorno all’annoso tema della Chiesa e del suo potere è alto, marginalizzando il focus sui prodotti filmici e il loro valore artistico – o almeno tanto è il rischio su chi vi scrive. Non è, d’altronde, vero che la potenza del messaggio (anche pretestuoso) passa per modi e forme? Impossibile evitarne l’analisi.
Rapito, in concorso a Cannes 2023, prende piede dal rapimento di Edgardo Mortara nel XIX secolo, ebreo supposto battezzato, per raccontare uno dei casi più discussi di illegittima egemonia papale, ai tempi in cui Bologna era dominio dello Stato pontificio. Bellocchio sceglie l’impianto storico, al limite delle fiction (d’autore) televisive, cosa che lascia forse giustificare la sua assenza alle premiazioni della kermesse francese. Se la potenza di un film – anche in stile documentaristico, di cui Rapito pare essere lontano parente – nasce dal carisma di narrazione, interpretazioni e letture della realtà, il film di Bellocchio appare un debole tentativo di racconto e coinvolgimento che ricorda il Noi credevamo di Martone. Se li si rispetta entrambi sul fronte della ricostruzione e informazione, la sensazione di freddezza tipica di certe grigie sculture d’epoca è ineludibile. I momenti d’empatia spuntano solo qui e là, anche se sono proprio loro ad accendere luce sia sul valore che sulle carenze dell’opera. Il distacco del piccolo Edgardo Mortara dai propri genitori funziona su molteplici tracce: Il dolore della perdita, imposto contro ogni logica umana e senza possibilità di opposizione, unisce dolore a senso di ingiustizia quasi kafkiana, temi rafforzati dalle valide interpretazioni dei genitori, Fausto Russo Alesi ma soprattutto la convincente Barbara Ronchi; ed è sempre lei a rendere prezioso l’incontro della madre col bambino presso la sede vaticana, climax di un percorso di solitudine, adattamento e plagio attuato sul piccolo Edgardo che richiama l’atavica paura dell’abbandono e la rassegnazione orrorifica di fronte al potere del Male – di qualunque origine sia. Il tentativo in extremis del bambino di fuggire e tornare dalla mamma è forse il passaggio più crudo, che rende ragione dell’intera visione della pellicola, amplificato dal successivo salto temporale di molti anni, che, assieme alla didascalia, urla il feroce sottotesto “ingiustizia è fatta”. Efficaci le esplosioni di Edgardo contro il torturatore, soprattutto durante la rivolta attorno alla bara del Papa, che iniettano dolore per immedesimazione con lo stato psichico del protagonista ma allo stesso tempo lasciano margini di speranza di uscita dall’incubo. Lo spiazzamento più tardi sarà intollerabile, al capezzale della madre morente quando il ragazzo tenterà di battezzarla e verrà da lei respinto, irriducibile nella fede ebraica. Rigidità religiose a confronto, e nonostante lo squilibrio malvagio verso l’invasione cattolica, emerge ficcante il terrore del settarismo di ogni tipo e della manipolazione tipico delle peggiori congreghe come Scientology – il documentario Going Clear è una visione necessaria. Alcuni validi motori emotivi, dunque, ma lontani e sparpagliati in un contesto filmico di stampo documentaristico/televisivo, come si diceva, e tanto si deve non solo a una regia poco movimentata ma ad interpretazioni spesso solo adeguate, a volte imbustate: oltre alla brava Barbara Ronchi, è sufficiente confrontare lo stile interpretativo di Filippo Timi con quello del resto della compagine e vedere lo scarto “deletereo”.
Poi c’è Vatican Girl.
Se il titolo di Bellocchio scende dallo scranno del cinema puro facendosi, sfortunatamente, un po’ troppo documento storico, la serie tv Netflix tenta invano la scalata alla docu-serie d’autore, sulla linea del valido Sanpa. Qui l’efficacia è scandita dall’abile selezione dei fatti, e la durata di sole quattro puntate è salvifica e sventa il rischio di diluizione, ma purtroppo gli manca il ritmo delle grandi serie investigative e una mano forte alla regia. I colpi di scena sono merito del soggetto e a volte si sfiora la confusione, giustificata solo da una faccenda che di lineare ha poco. Siamo lontani dai grandi prodotti americani del genere, e il caldo suggerimento va alla visione dell’enorme Wild Wild Country (ancora Netflix), per scoprire che anche una semplice sonorità ossessiva, scelta ad accompagnare la pellicola, è segno di una grande regia lì e una scarsa inventiva in Vatican Girl.
A margine di tutto resta un senso di paura, disagio e sopravvivenza, e la forte sensazione – tipica di certo cinema da incubo – dell’impotenza nel controllare gli eventi.
Ma soprattutto la consapevolezza che a poterlo fare sono in pochi, e sono spesso dalla parte del Male.