ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

[SPECIALE] THE WHALE | Love will tear us apart

Regia: Darren Aronofsky

Anno: 2022

Produzione: Stati Uniti d’America

una recensione a cura di Elena Pacca

Nero, voce. Nero, voce, Nero, ancora voce.

Lo schermo di un computer portatile. Un riquadro nero al centro. E tanti volti in altrettanti riquadri tutto intorno. Il professore sta parlando. La voce è calma, calda, suadente.

Lo schermo di un computer portatile che sullo sfondo ritrae una scena di sesso fra due uomini. Un uomo, lo stesso uomo, che si masturba ansimando in un appartamento dove prevale la semioscurità.

La macchina da presa gira perpetuamente attorno al corpo di Charlie – per lo più arenato su un divano logoro – quasi che fosse una gigantesca stazione orbitante dismessa. Un corpo – leitmotiv di Aronofsky, che non è mai solo elemento fisico caratterizzante un soggetto, ma è terreno di scontro, luogo di un vero corpo a corpo ingaggiato con sé stessi, le proprie ambizioni e con la propria psiche – che è il corpo di un grande obeso. Impossibilitato a muoversi se non con l’ausilio di un deambulatore prima e di una sedia a rotelle oversize dopo. Un corpo che è costrizione e contrizione. Per un peccato commesso: aver amato disperatamente un uomo e per questa passione aver abbandonato non solo la moglie, ma, soprattutto la figlia Ellie quando aveva solo otto anni. Aver lasciato una bambina orfana di un affetto trasformatosi in odio per quel padre che ha preferito la propria felicità alla sua, relegandola alla rabbiosa frustrazione di una furia cieca, da adolescente cinica e arrogante. Charlie sembra nutrirsi di quella cattiveria impetuosa e, ingurgitandola, frantumarla per disinnescarne la potenza. È come se succhiasse il veleno che lui stesso anni prima ha contribuito a mettere in circolo con il morso dell’abbandono, da una ferita aperta, ma che, via via, si spera possa rimarginarsi e guarire.

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Darren Aronofsky (e prima di lui Samuel D. Hunter, l’autore della pièce teatrale) fa convergere tanti temi che, come in un gioco di quinte, entrano, escono, si incrociano, si sfiorano per un attimo e poi scompaiono. Funzionali e depistanti, atti a creare più o meno labili confini entro cui “far stare” la storia. La storia di un uomo ferito che, indubbiamente ha ferito a sua volta, e che è chiamato – in parte artefice della propria condizione e della sua perpetuazione – a fare i conti con sé stesso e con il peso delle sue scelte. Rinchiuso letteralmente nella propria gabbia di dolore, tristezza e disperazione. Un corpo che è casa, che circoscrive e in qualche modo preserva la sua condizione e che, come la casa in cui si è autorecluso, lo protegge e lo isola dal mondo esterno. Da quella luce salvifica che dura lo spazio dell’apertura della porta d’ingresso, unica connessione e concessione al fuori che illumina per un attimo il mondo cupo, asfittico e claustrofobico di Charlie per poi richiudersi e farlo ripiombare nella più rassicurante – almeno per lui – oscurità, come l’antro in cui gli animali si rifugiano in prossimità del presagio di morte. Se in Madre!, precedente lavoro del regista, la casa è un vero porto di mare dove è addirittura necessario aprire la porta per fare entrare gente nuova, nuova vita, nuove idee (con quel che ne consegue), qui è l’esatto contrario.

Ogni cellula, ogni grammo di grasso di Charlie converge muovendosi in toto pur nel disarmonico ma pervicace incedere verso un unico obiettivo: riconquistare l’affetto di Ellie e liberarla da quella sorta di maledizione che la sta condannando all’anaffettività, precludendole lo slancio e la limpidezza di sguardo di cui è capace. Questo è un altro punto di dolore che attanaglia Charlie in quanto padre: la dispersione di un potenziale di bellezza. E il patimento più grande, doloroso al pari delle fitte lancinanti che ormai il suo corpo gli impone, è la consapevolezza di esserne il responsabile, artefice di un danno evidente che non accetta essere definitivo, irreversibile, ma che vuole caparbiamente rimuovere. Non conta più la fatica di spostarsi, il dolore seppur ancora vivo per l’amore perduto di Adam (il suo compagno morto suicida), non conta la fame, il disprezzo per sé stesso, non conta il sudore e il fetore che il suo corpo/casa emanano, non conta il servizievole ma, al tempo stesso, morboso accudimento da parte di Liz, la sorella di Adam, non conta la responsabilità della religione ottusa che ha reso cieca una famiglia di fronte al proprio figlio, non contano i giorni perduti per sempre, non conta più nulla se non quell’estrema possibilità di tornare ad essere padre, per una figlia che, in fondo, non desidera altro.

Charlie si è letteralmente mangiato la vita, gli anni che avrebbero potuto essere e non sono. Charlie è assolutamente indifeso. Nonostante la vicinanza di Kim, è essenzialmente solo nella sua disperazione. Charlie non è l’emblema di nulla, non rappresenta nulla, men che meno una categoria di persone, Charlie è solo sé stesso a lottare contro i suoi demoni. Non rivendica nulla, non è paladino di nulla. È, in qualche modo, la quintessenza dell’individualismo e della volontà per quanto possibile di non dipendere e di non essere di peso a nessun altro se non a sé stesso. I suoi occhi spalancati, acquosi, sono quanto di più limpido e sincero possa esserci nel suo mimetizzarsi con un ambiente che potrebbe assimilarlo dall’oggi al domani, inglobandolo come semplice elemento o arredo obsoleto da smaltire da parte di quelle imprese di svuotatutto chiamate da chi non vuole metter mano a spiacevoli o imbarazzanti ricordi.

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Un filo connettivo imbastisce l’ordito che seguiamo come un’impuntura che detta i tempi e la forma della narrazione: “Moby Dick”, romanzo dell’inseguimento di un’ossessione, soggetto di quel temino che Ellie scrive, con l’evidenza della sincerità, e che Charlie altrettanto ossessivamente rilegge e poi farà leggere – per catturare l’essenza di quella figlia che ora appare respingente, ma capace di sensibilità, acume e verità (ciò che lui, professore, richiede a gran voce ai suoi studenti, rivelandosi infine anche a loro, proprio per amor di verità, per porre termine a quella sorta di inganno perpetrato troppo a lungo nei loro confronti). Il suo è un bulimico disperato attacco di fame d’amore. Non compensativa, ma in grado di ridonare quell’equilibrio emotivo che la figlia ha perduto. Come nelle grandi opere narrative arriva il momento dell’agnizione, il riconoscimento tanto atteso, quello di una figlia col proprio padre, non più mostro detestabile di cui si auspica e si ridicolizza la morte, ma affetto sincero e viscerale, la cui perdita genera smarrimento, dolore e lacrime.

E allora non c’è dieta miracolosa, regime alimentare virtuoso, operazione riducente che tenga, per affrancarsi davvero da quell’ingombrante e auto vessatorio eccesso di peso, se non quello di provare a liberarsi da quel corpo habitat gigantesco ormai fattosi troppo stretto. Come l’aragosta che crescendo deve disfarsi del carapace che la costringe, perché a un certo punto quella corazza diventa troppo dolorosa, così Charlie prova ad alzarsi, si puntella, si sforza per liberarsi di quella costrizione che lo avvolge e lo lega come una camicia di forza impedendogli il cammino. La casa ormai è poco più che quel rettangolo nero iniziale, perimetro di una planimetria esistenziale che tutto racchiude e confina e in cui ogni cosa – materia, vicissitudini, paure, dubbi, affetti – precipita come in un buco nero. Ma nel finale, come per un salto quantico, attraverso la porta d’ingresso che si spalanca, si trasforma in un buco bianco, mettendo finalmente fine al centro pulsante del dolore.
Da lì in poi, al netto di un effetto forse troppo ad effetto, è la grazia a prevalere, quella di uno sguardo reciproco capace di annullare l’abisso del passato e aprirsi nonostante tutto alla prospettiva di futuro, quale che sia, arreso forse all’evidenza, ma umanamente non sconfitto.

[Intensissimo ma non caricato o peggio caricaturale Brendan Fraser. Altrettanto brava, ostile e struggente Sadie Sink nel rispondere alla sfida. La scena che rimarrà nella mia personale galleria: il dialogo fra il rider di pizza a domicilio nel patio esterno alla casa e Charlie, all’interno. L’orecchio teso di Charlie per assicurarsi che il ragazzo sia andato via. L’apertura della porta da parte di Charlie per raggiungere l’agognato bottino di carboidrati e grassi saturi e l’incrocio di sguardi fra i due uomini, perché l’altro è rimasto per “conoscere” finalmente a chi appartenga quella voce.]
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