ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

[SPECIALE] THE WHALE | Quando raggiungere la balena è un nuovo inizio

Regia: Darren Aronofsky

Anno: 2022

Produzione: Stati Uniti d’America

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva

Darren Aronofsky torna in sala con The Whale a cinque anni di distanza dal suo ultimo film. E lo fa, ancora una volta, con una vicenda in cui le profondità psicanalitiche – talvolta irrimediabilmente oscure – dell’essere umano sono al centro della narrazione, si pensi – ad esempio – ad opere come Il cigno nero, Noah e Madre!.

Il film inizia con una scena che ci riporta ai tempi della pandemia: lo schermo di un computer ripartito in più finestre, una delle quali – al centro – solo nera e da cui proviene la voce calda e cordiale del docente che commenta il lavoro di un gruppo di studenti. Si tratta di un professore capace e competente che reagisce con abile gentilezza al commento di un allievo sulla telecamera spenta, espresso involontariamente nella discussione di gruppo. Si tratta di una situazione in cui è facile riconoscersi poiché vissuta da molti nel corso della pandemia, compreso l’uso poco accorto della chat e la finestra disattivata di chi non ha piacere di essere visto perché sta facendo altro, è rimasto – magari – in pigiama o si trova in una stanza disordinata.

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Al termine della lezione, gli spettatori possono finalmente vedere dal vivo il protagonista del film: Charlie, questo è il nome del docente, riempie letteralmente lo schermo in quattro terzi scelto dal regista ed è uno shock. Osserviamo, infatti, un uomo affetto da gravissima obesità eccitarsi con un video pornografico su Internet e avere un attacco di cuore. E ciò mentre entra in casa un giovane missionario della New Life Church a cui il docente chiede di leggere uno stralcio di un tema su Moby Dick, poiché è così bello che lo vuole sentire un’ultima volta prima di morire. In questo modo il romanzo di Herman Melville entra in scena nel film, ritornando al centro dello stesso – almeno esplicitamente – solo in chiusura, quando lo spettatore capirà il motivo della commozione di Charlie per quell’elaborato, interessante, sì, ma ingenuo e infantile.

L’ingresso scioccante e volutamente sgradevole del protagonista non impedisce, però, di iniziare quasi subito ad empatizzare con lui e tornare all’iniziale sensazione positiva prodotta dalla sua voce. Ciò accade quando inizia a disvelarsi la causa dell’obesità che ne ha compromesso irrimediabilmente il fisico. Infatti, i giorni narrati sono – con ogni probabilità – gli ultimi della vita di Charlie, che si è ridotto così e ha lasciato ogni forma di vita sociale dopo la morte del compagno con cui aveva vissuto, per il quale aveva abbandonato la moglie e la figlia di otto anni. Un compagno che si scopre essere legato ad altri comprimari della storia: era il fratello dell’infermiera che aiuta Charlie sia sul piano medico che affettivo e apparteneva alla stessa setta religiosa del missionario incontrato nelle prime scene e che tornerà a trovare Charlie ripetutamente. Proprio il conflitto tra la relazione omosessuale e i rigidi principi della setta è stata la causa della crisi e del suicidio del giovane.

Da questi eventi pregressi nasce il forte disagio del protagonista, che si lascia andare roso dal rimorso di aver abbandonato la figlia e la moglie – diventate un’adolescente piena di rancore la prima e una donna con problemi di etilismo la seconda – e, soprattutto, di non aver saputo aiutare il compagno alle prese con gravissimi problemi personali e di accettazione di sé.

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Aronofsky nella sua filmografia ha spesso affrontato il tema dell’ossessione e questo nuovo film non è certo da meno. In un’ambientazione e una vicenda quasi di tipo teatrale, il protagonista è confinato nello spazio ristretto della sua casa, che può percorrere solo al prezzo di grandi fatiche, dato il suo stato di salute. Ciò rende il richiamo a Melville e ad Achab, protagonista di “Moby Dick o la balena”, ancora più pertinente. L’ossessione di Charlie ricalca quella del capitano del Pequod, portandolo all’autodistruzione. E a richiamare il personaggio letterario è anche l’ambiente in cui Charlie deambula faticosamente, la stessa fatica con cui – per motivi diversi – si muoveva Achab: la casa corrisponde, a tutti gli effetti, alla cabina in cui stava rinchiuso il capitano, costantemente in penombra e inaccessibile quasi all’intero equipaggio.

Ma Charlie non è il solo ad essere travolto dalle personali ossessioni: a far da sfondo vi sono quelle del suo compagno vittima dal fanatismo religioso della famiglia, lo stesso che opprime il giovane missionario che, aiutato in qualche modo dalla figlia di Charlie, forse si salverà. O forse no, visto che il suo spirito è comunque segnato dall’integralismo.

A differenza dei personaggi minori, però, Charlie ha una balena reale da inseguire, con spirito e umanità differenti da Achab: la figlia Ellie. Riuscirà ad avvicinarsi a lei proprio negli ultimi istanti, quando sarà finalmente chiaro il significato consolatorio dello stralcio di tema letto e riletto più volte dal protagonista.

Un film, quindi, teatrale e da “camera”, che riesce però a catturare l’attenzione dello spettatore senza far patire la ristrettezza dell’ambiente in cui si muovono i personaggi.

Ottima interpretazione di Brendan Fraser che, prigioniero di un corpo modificato con il trucco prostetico, rende magistralmente con lo sguardo tutta l’interiorità e la sofferenza di Charlie. E bravi i comprimari, in particolare Sadie Sink nel ruolo di Ellie.

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