una recensione a cura di Tiziana Garneri
Charlie Kaufman è un cineasta statunitense, di origini ebraiche , classe 1958, che dirige nel 2020 Sto pensando di finirla qui, prodotto e distribuito da Netflix.
Già noto sceneggiatore di Essere John Malkovich di Spike Jonze e Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry, dietro alla macchina da presa nell’interessante film di animazione Anomalisa, si cimenta in questo film tratto dal libro di Iain Reid.
Un film pazzo, ossessivo e volutamente confusivo, il cui titolo è la summa di tutti i suoi possibili significati.
Cosa vuole comunicare allo spettatore il titolo Sto pensando di finirla qui?
La fine della relazione amorosa tra Lucy e Jake, i due protagonisti, pensata ossessivamente da Lucy?
Una fantasia di suicidio di Lucy o di Jake?
Si tratta proprio di un titolo che prelude a situazioni di difficile ed immediata comprensione.
Trattasi di una trama in apparenza piuttosto minimale.
Jake e Lucy stanno in una storia d’amore iniziata da poco, si recano in una giornata di violenta tempesta di neve a casa dei genitori di lui, che vogliono conoscere la ragazza…
Anche le location sono minime: la macchina su cui i nostri personaggi, viaggiando, dialogano fittamente; discorsi inframmezzati da una voce off che ci racconta i pensieri di Lucy in un continuo campo e controcampo; la casa dei genitori di lui, un liceo, una breve parentesi di stazionamento in un drive-in per acquistare del gelato.
Il soggiorno nella casa è inquietante, la cena grottesca. I genitori ora anziani, ora trasfigurati, la camera di bambino di Jake, una foto in cui Lucy si riconosce, uno scantinato pieno di quadri, la madre che sembra morta.
Si delinea l’idea di cinema di Kaufman, una forma di racconto mai lineare ove vi è simultaneità degli eventi sia sotto forma di intreccio di linee narrative, sia di frequenti salti temporali tra passato, presente e futuro, sia di esasperata dilatazione della memoria.
La narrazione si comprende con difficoltà perché, in una chiave post post moderna, i piani narrativi volutamente si confondono, si spostano temporalmente, per trasformarsi in spazi mentali.
La memoria, il ricordo, la fantasia diventano il reale focus del film, dilatati sino a diventare patologia.
La sindrome di Fregoli di cui Jake è affetto.
Questo film è fatto di solitudini e ossessioni, un road movie della coscienza che nel suo incessante flusso travolge la realtà, dove il regista si compiace di spiazzare lo spettatore, spesso inducendolo a seguire false piste, perché il cervello deve spaziare, non imbrigliato in linee guida. Ogni tanto riportandolo sui binari di una plausibile comprensione.
Talora pare di assistere a una situazione davvero reale, ma è un continuo gioco di specchi deformanti.
Infatti si fa fatica a pensare che un personaggio possa essere la proiezione immaginativa dell’altro.
Ciò che sembra reale è in realtà deformato, trasfigurato, manipolato dalla memoria, da ricordi, fantasie.
Jake guida la macchina, ma è anche il bidello del liceo, forse le ragazze del drive in sono quelle che da giovane lo schernivano, forse la stessa Lucy, che diventa ora Emy ora Luisa, è proiezione della sua mente.
Forse neppure il viaggio esiste.
E l’unico punto presumibilmente fermo è che Jake finisce per spogliarsi, non soltanto nel corridoio del liceo, assimilandosi ad un maiale, ma mentalmente, prendendo coscienza in un barlume di lucidità del fallimento di una vita, di essere una nullità. Non prima però di aver immaginato di salire su un palco oggetto di una standing ovation.
Ancora una volta Kaufman non perde occasione di sperimentare. Dai riferimenti letterari ai riferimenti cinematografici alla Gondry, passando attraverso il musical…
E lo spettatore? Soltanto alla fine del film sarà possibile, per lui, dare un significato sensato a quella frase iniziale. Quindi potrà provare a dare un senso logico a “quel finirla lì” che rimbomba compulsivamente nella sua mente.