associazione di promozione sociale

SUNTAN | Mister Lonely

Regia: Argyris Papadimitropoulos
Anno: 2016
Produzione: Grecia, Germania

una recensione a cura di Elena Pacca

Parafrasando il poeta, forse, ogni uomo è un’isola e una piccola isola delle Cicladi accoglie in inverno Kostis, quarantaduenne medico condotto che si insedia nel minuscolo alloggio a lui destinato ad Antiparos. Schivo, timido, non propenso a socializzare più di tanto con le ottocento anime indigene, al di fuori del suo contesto professionale, nel suo studiolo, avamposto della diagnosi di acciacchi e malinconie degli isolani. Le stradine deserte, le lucine che santificano un Natale in solitudine, i pasti surgelati, e poi finalmente il salto nell’iperspazio temporale della stagione estiva, l’arrivo massivo dei turisti, gli incidenti coi motorini a noleggio, i volti nuovi a invadere e conquistare prima il territorio e poi il proprio piccolo spazio, soluzione a tutti i mali, regno di quel dottore preso d’assalto dall’irruenza e dalla strafottenza di un gruppo di giovani campeggiatori votati al divertimento.

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L’estate è il luogo delle possibilità, la parentesi sensoriale che viene non solo aperta ma spalancata al tutto senza troppo curarsi di conseguenze e risvolti, in grado di sovvertire regole, gerarchie, anatomie sentimentali che elevano il corpo ad assoluto protagonista, in un’overexposure che tutto fa rilucere, persino le ombre.

Dapprima in disparte, intento a spalmarsi la crema solare a base di ossido di zinco – Kostis pare una calavera – filtro a protezione totale tra lui e il mondo fuori, così assolato, bruciante, in grado di ustionare, non solo a pelle ma nel profondo ben oltre la superficie, quel cuore solitario che pare improvvisamente risvegliarsi e tornare a battere sulle spiagge e nelle notti folli e forsennate di Antiparos, al ritmo di musica e alcol.

Una mal riposta speranza utile a coprire le distanze dell’età, delle ambizioni, del baratro fra la leggerezza giovanile e il prendersi troppo sul serio di chi ha il doppio degli anni, tra fisicità dirompente sfacciata solare esibita e goffaggine, imbarazzo, disagio e pesantezza di un viversi sfatto da solitudini e delusioni. Non sembra ma agosto è il mese più freddo dell’anno e Anna è portatrice sana di quella crudeltà della giovinezza che si prende gioco di chi può dominare facilmente con la propria spudorata bellezza. I giorni passano in un interminabile crescendo tensivo. Papadimitropoulos procede per accumulo, piccoli granelli di sabbia che vanno ad accrescere il castello di fraintendimenti e illusioni di Kostis e ci porta a credere che qualcosa di terribile stia per succedere, quando il meccanismo fatto di provocazione, slanci, ritrosia, malizia e seduzione, che si concludono addirittura in un fugace amplesso, raggiunge il suo culmine e Kostis si ritrova infatuato e poi, forse, innamorato, completamente perso, abbandonato a sé stesso e alla propria umiliazione senza ritegno e senza ritorno. Se già la sua autostima è poca – lo smacco dell’incontro con il vecchio compagno di studi che ha fatto ben altra carriera in medicina – il prosieguo della storia e della vacanza del gruppo di giovani a cui lui si ancora in cerca di una forma di salvezza, precipita impietosamente verso un epilogo che non sappiamo se brutale, drammatico o semplicemente triste.

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Tragedia di un uomo un po’ ridicolo che, alla fine, recede dal compiere un gesto abietto e si prodiga a ricucire quella ferita aperta che sicuramente è più sua che di quella ragazza che giace inerte sul lettino di quello che per l’ultima notte sarà il suo studio, inizio e fine di quella stagione maledetta, che segna il confine tra un’insperata giovinezza e il soccombere al torpore di una vita che la giovinezza l’ha perduta per sempre. Il volto di Kostis chiede aiuto, i suoi occhi liquidi sembrano quelli di un cane randagio in cerca di approvazione e affetto sino a quando lo vediamo cadere preda del proprio sbandamento, e riflettono la tristezza dolente dei luoghi di vacanza, ipercinetici d’estate quanto desolanti d’inverno. Schema ricorrente che segna il tempo sempre uguale estate dopo estate, il susseguirsi di arrivi, speranze, ripartenze e illusioni che muoiono al passaggio di stagione, come quella di Kostic che si trasformerà in un inesorabile inverno.

La filmografia greca recente, presenta il conto di angosce, turbamenti e disillusioni e si ammanta di una ferocia glaciale, un bisturi tagliente che dissangua senza spargimento di sangue e seziona l’animo umano come un esame autoptico. Papadimitropoulos ne è parte ma è più incline a un realismo epidermico e istintivo. Come in fotogrammi subliminali, registriamo tracce di Rohmer e dei suoi Racconti d’Estate nello scrutarsi vicendevole aspettando che accada qualcosa, di Korine e di Spring Breakers nella consapevolezza dell’infinito potenziale della gioventù e nella sensualità dei corpi abbacinati di bellezza di Kechiche di Mektoub My Love, ma nulla è omaggio o plagio, più semplicemente suggestione o recupero della nostra memoria che ci ha fatto approdare – quale che fosse il mare – in un’isola greca più o meno lontana nel tempo e il cui ricordo indugia tra nostalgia, rimosso e scampato pericolo.

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