Regia: Nathalie Álvarez Mesén
Anno: 2021
Produzione: Svezia, Costa Rica, Belgio, Germania, Francia
una recensione a cura di Umberto Mosca
Nessun linguaggio come il cinema sa fondere in maniera così efficace lo sguardo documentativo dei luoghi e dei gruppi sociali con l’espressività e l’intensità delle emozioni e dei sentimenti di vite particolari.
E una buona alchimia tra le due anime del cinema si realizza in questa produzione svedese diretta da una regista nata e cresciuta in Costa Rica, all’esordio nella regia del lungometraggio. Un film che racconta la storia di Clara, la guaritrice di un piccolo villaggio di montagna del paese centroamericano.
Un film segnato dall’immersione profonda in un microcosmo composto dalla selva e dalle piante che la compongono, arricchita tuttavia dall’adesione forte alle figure umane, ai loro impercettibili gesti e alle espressioni appena accennate. Un’esperienza estetica che rivela come il cinema, al di là del filtro costituito dal medium tecnologico, sia essenzialmente una questione di sensibilità e di percezione. Da una parte lo sguardo meravigliato della scoperta etnografica di una specifica zona del mondo, ignota al grande pubblico; dall’altra un’attenzione per le figure umane in cui lo sguardo psicologico non è mai fine a se stesso, ma è sempre il tramite per accedere a una dimensione antropologica più ampia,
che è l’espressione della condizione umana in un determinato contesto sociale e culturale. Un’opera che trasforma in un’idea artistica la necessità di lavorare a lungo sul campo per conoscere davvero le culture umane, un piccolo film che rivela in pieno la grande passione di chi considera il cinema lo strumento privilegiato di “rivelazione del reale”. Un’occasione imperdibile per cogliere quelle componenti di magia e spiritualità da cui non possiamo prescindere per cogliere la complessità di uno sguardo complesso sul continente latinoamericano.
