Titolo originale: Rodéo
Regia: Lola Quivoron
Anno: 2022
Produzione: Francia
una recensione a cura di Elena Pacca
Da subito siamo investiti e assordati dalle urla e dalla rabbia di Julia. Le hanno appena rubato la sua moto. L’unica cosa che possiede veramente, che può dire che è sua. E’ la sua essenza, la sua anima, il suo modo di rapportarsi con la realtà. In solitaria compagnia di sé stessa, del proprio nomadismo fisico ed emotivo. Siamo in Francia, il mondo è quello del “cross-bitume”, il mondo delle acrobazie su due ruote, senza casco, senza protezioni, senza permesso. Julia/Julie Ledru è una moderna antieroina sans toit ni loi, sola di quella solitudine aggressiva, feroce, quella di chi sa che deve difendersi da sola e contare solo sulle proprie forze. Famiglia assente, fratello che si presta solo per fare la “voce per bene” utile ad irretire i venditori di moto, Julia è una locomotiva lanciata contro il machismo dell’universo circoscritto in cui si esprime.
Quella tribù di bikers estremi, pervasi da un vitalismo ossessivo, innervato dalla fascinazione più o meno consapevole della morte che provoca e irretisce. E che fa piangere e commuovere per la scomparsa dell’amico e fodera di durezza e strafottenza, l’andare oltre, il continuare a rischiare. Julia è nel branco, ma è isolata. È l’unica donna in competizione con gli uomini. Le altre sono solo le ragazze di qualcuno, a metà tra le groupies e le cheer leader, a supporto dei loro maschi alfa. Julia viene ribattezzata la sconosciuta, come se il non attribuirle un’identità servisse agli altri per sbarazzarsene, a ignorarla, o peggio, a chi vorrebbe che sgombrasse il campo. Un tessuto di situazioni pericolose la instradano verso una routine del furto con destrezza, facendosi beffe dei proprietari che hanno messo on line gli annunci di vendita. Poi quel ruolo viene notato da un boss in prigione, prigione attraverso cui controlla e dirige tutto, famiglia compresa. E allora un piano più grande, il coniugato fra abilità e sorpresa, tra la sfida impossibile quasi alla Diabolik e la ricerca del sostegno e dell’approvazione del gruppo.
Fastidiosa Julia. Se dovessimo mai incontrarla sul nostro cammino, malediremmo la sua sfrontatezza, il suo coglionarci sotto il naso, il suo essere ladra, delinquente e pure beffarda. Non le concederemmo sconti e invocheremmo una giustizia giusta e altrettanto cattiva. Non saremmo blanditi dal suo sguardo profondo, vibrante, di sfida aperta alle leggi che governano gli uomini e le cose. Non vorremmo nemmeno sapere il suo dolore, conoscere le sue paure, spartire qualcosa di umanamente solidale con lei. Ci arrabbiamo della sua rabbia, cieca, furiosa, latente e poi esondante, un vulcano in perenne stato di sonno/attività, prevedibile solo nel sapere che prima o poi quella rabbia esploderà. Fantastica Julia che va dritto per dritto lungo la sua strada infischiandosene di tutto e tutti: “Io rubo tutto quello che mi serve. Non mi servono i soldi”. Che accantonerà, nascondendoli con cura.
Non ci sono particolari cromatismi nella storia. Poco luccica, il metallo è roba sverniciata, scorticata, i pezzi di ricambio non sempre originali, ma che figata quando si scopre che su un modello rubato era stato montato un Akrapovic, un Akrà in quel modo tutto francese di troncare e accentare in finale le parole. Le riprese in moto durano il giusto, il tempo necessario per capire cosa sia il cross-bitume e quanto folli siano quelle corse lungo i rettilinei delle strade provinciali, appena il tempo di lanciarsi, sfidarsi, impennare prima che sopraggiunga la polizia. Il personale e il collettivo si alternano in un gioco di spazi equilibrato.
Rodeo è una storia di prigioni e prigionie. Umane, sociali, domestiche, carcerarie: tutte ugualmente costrittive. Un’umanità varia e compressa, soggetti compromessi da quella vita ai margini che li libera e li condanna. Dalla loro la gioventù, che brilla e può essere bruciata in un attimo. Quando l’asfalto si trasforma e non è più il compagno di scorribande adrenaliniche, ma il suolo brutale su cui si schiantano i sogni per sempre, che per qualcuno sarà l’atto finale di un’esistenza dal futuro senza futuro.
Se Lola Quivoron non avesse ceduto a quel lascito finale troppo edulcorato nella forma più che nella sostanza, se avesse osato di più, aprendo l’acceleratore sullo scandaglio emotivo, sui rapporti sentimentali che restano sempre un passo indietro, trattenuti da una titubanza che concede troppo spazio al gioco di sguardi, forse, avremmo avuto anche noi quel Coup de Coeur che hanno provato i giurati di Cannes.