Titolo originale: Unrueh
Regia: Cyril Schäublin
Anno: 2022
Produzione: Svizzera
una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva
Unrest di Cyril Schäublin è un film sul lavoro in fabbrica e sul suo rapporto con il tempo, ancor prima che sulle idee e le lotte dell’anarchismo. E, ciononostante, è un film indubbiamente “politico” pur nella sua evidente particolarità.
Nella Svizzera della Jura Bernese, in un periodo di poco successivo all’esperienza della Comune di Parigi, è narrata la storia di umili lavoratrici in una fabbrica di orologi e di una cittadina in cui la presenza di anarchici è marcata ed evidente, anche se spesso sono diventati tali semplicemente andando ad una festa o aderendo alla mutua. Fra di loro vi è Pëtr (Pyotr) Kropotkin, geografo giunto nella zona per mappare i toponimi mancanti sulle carte geografiche del tempo. Uno straniero, quiindi, libero dall’influenza della fabbrica di orologi della piccola città. Giunge da San Pietroburgo, dove a parlare di lui e della politica mondiale – nella bella scena di apertura del film – vi sono alcune giovani cugine e ragazze elegantemente vestite e al riparo dei loro piccoli parasole, che le fanno somigliare alle celebri dame di Monet nel vento.
Il film concentra il proprio sguardo sui piccoli eventi che riguardano persone che fanno la storia senza esserne protagonisti, secondo la poetica di Brecht. In questo contesto, la natura del legame fra la fabbrica e i suoi lavoratori è espresso proprio da ciò di cui la fabbrica si “occupa”: il tempo. È quindi raccontata per immagini la precisione necessaria per costruire un orologio e la tirannica presenza del tempo in ogni fase della lavorazione. Ritmi scanditi, per le operaie, dal cronometro degli ingegneri che sovrintendono ad ogni minima fase del ciclo di produzione, stabilendo recuperi di produttività in ogni anfratto dell’intervento manuale delle operaie, che devono recuperare tempo – secondo su secondo – per non essere redarguite. E proprio in questa continua vessazione temporale del lavoro sta la componente “politica” di un film in cui la politica propriamente detta quasi non compare.
Certo, si vede come operaie e operai si tassino per sostenere il movimento anarchico internazionale, come acquistino foto che riproducono altri operai o, in alcuni casi, umili persone diventate “miti” per il loro comportamento nella vita pubblica o lavorativa, ma il cosiddetto “conflitto” è praticamente bandito. Non ci sono comizi, né scioperi, né rivolte, cosa che induce nello spettatore uno strano senso di spiazzamento. Ciononostante, è evidente come il capitalismo faccia il suo corso e come le operarie fotografate nell’atto di discutere con anarchici di nota fede vengano licenziate senza pietà.
Mandate via in modo quasi asettico, senza reale cattiveria, in modo educato. Come educata e senza rimostranze è acquisita la dura realtà della perdita del lavoro da parte delle licenziate, che abbandonano perni, molle e bilancieri microscopici per tornarsene a casa, sconfitte.
Nel corso del film emerge quindi in modo chiaro non tanto il valore del tempo in sé e della capacità di misurarlo (interessante la problematica dei “diversi” tempi della fabbrica, del telegrafo, dei vari cantoni svizzeri, ecc.) quanto il fatto che proprio attraverso il controllo del tempo e di ogni istante – lavorativo e non – il capitalismo controlla e sussume le persone alle proprie finalità generali. E allora come oggi, il (proprio) tempo e la sua disponibilità è il bene più importante che una persona possa possedere, poiché utilizzare almeno in parte il proprio tempo è ciò che rende, in fondo, liberi. Questa è la tesi del film, incarnata da una delle operaie licenziate, che attraversando il bosco insieme a Pyotr Kropotkin lascia appeso ad un albero l’orologio (l’ennesimo) che era stato dato loro per cronometrare il tempo di attraversamento del sentiero che stavano percorrendo.
Davvero particolari le riprese effettuate – con camera fissa come nel cinema dei primordi – in cui le parti in movimento, umane e non, sono veramente poche. E dove gendarmi, operaie, ingegneri, anarchici e passanti sono spesso posti ad una certa distanza, confinati in un angolo dello schermo filmico e ripresi quasi sempre a mezzo busto, in una visione che dà più rilievo a case o a singoli alberi che alle persone. Cosa che fa riecheggiare il discorso filosofico di uno dei fotografi presenti (è in corso una campagna pubblicitaria, ai limiti del propagandistico, dell’azienda di orologi) che attribuisce alle scelte sul cosa e come inquadrare un‘importanza fondamentale, poiché costituisce una rappresentazione parziale della realtà così come il fotografo la vede e la interpreta. Una sinossi, in fondo, delle scelte artistiche del regista.
Unico movimento di macchina presente nel film, che sembra finalmente restituire libertà e dinamismo, si ha proprio nella scena finale, quando un cronometro viene abbandonato appeso ad un albero e la camera si muove a inquadrare il fogliame del bosco senza trovare traccia della giovane ragazza e del cartografo, che hanno scelto di riappropriarsi in qualche modo del loro tempo e della propria vita.