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[TFF41] IL CIELO BRUCIA | Mettere a fuoco

Titolo originale: Roter Himmel
Regia: Christian Petzold
Anno: 2023
Produzione: Germania

una recensione a cura di Elena Pacca

Due ragazzi in macchina, un guasto, smarrirsi nel bosco e poi un arrivo. E un imprevisto, un ‘ospite inatteso. Così Leon e Felix nella casa sul Baltico della madre di quest’ultimo, alla ricerca di un rifugio un po’ fuori dal mondo per ritrovare il primo il giusto stimolo per scrivere quel romanzo che il suo editore sta aspettando senza più possibilità di proroga e il secondo la concentrazione e la giusta illuminazione per trovare l’idea del suo portfolio fotografico, si imbatteranno in Nadja cui la madre ha affittato una stanza a loro insaputa.

Petzold gioca a la Rohmer nella prima parte. E ci riesce bene. Complice il luogo e il girotondo  sessual/sentimental/emotivo che si viene a creare. Amori che si sciolgono e si allacciano con noncuranza e tranquillità; le coppie si muovono fluidificando una danza di corpi e allacciandone altri a nuove relazioni. Da figure indefinite, dai contorni sfumati, via via si scontornano meglio sullo sfondo privo di specifici connotati identificativi e la messa a fuoco delinea fisionomie e caratteri.

Ma se in Rohmer è il nulla o quasi che accade ad assurgere a protagonista o deus ex machina in grado di scomporre e ricomporre, qui Petzold non resiste e mette in finale il carico di un melodramma che incendia il film bruciando come una pellicola di celluloide il sottile, delicato e ambiguo portato precedente. Ben corroborato dall’ipnotico incedere, quasi un mantra elettropop dell’onirico, ossessivo e avvolgente  brano “In my mind” dei Wallners, un quartetto viennese, che punteggia il corso del film. 

Secondo segmento dedicato a una trilogia degli elementi, dopo l’acqua di Undine, Roter Himmel/Il cielo brucia, tocca il capitolo del fuoco, presenza fisica incombente sin dalle prime battute e che si manifesta metaforicamente durante il corso del film. Si rivelerà di paglia quello fra Nadja e Devid atletico bagnino locale, furioso quanto un amplesso sonoramente percepibile attraverso le pareti notturne e pronto a sacrificarsi per quella passione successiva che appare assai più ardente fra Devid e Felix. Leon ha quello sacro per la scrittura cui difetta però ispirazione che pensa di poter ritrovare nella pace presunta di quel buen retiro che si prospettava la casa dell’ amico. Nascosto quello di Nadja che arde sotto la cenere dell’understatement. Ultimi fuochi invece quelli di Helmut, l’editore che sa di avere i giorni contati come colui che a Pompei nel 79 A.C. avesse conosciuto anzitempo l’eruzione senza scampo del Vesuvio. 

Petzold tiene la barra dritta sino quasi al finale del film quando lo scarto venato di romanticismo tedesco prende il sopravvento.  Una necessità quasi didascalica pare voler tradurre e dare spiegazione a tutto. Una quadratura del cerchio non necessaria. Il fuoco è considerato al pari dell’arma inquadrata all’inizio di certi gialli: se si vede, ci insegnano, è perché prima o poi verrà usata. L’irrompere del fuoco rompe l’equilibrio formale e stilistico del film a favore di un precipitare di situazioni e un finale che nulla aggiunge e molto toglie alla magia del non detto, a quella sospensione quasi materica che spesso ci inebria.

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