una recensione a cura di Alessandro Cellamare
Che il rapporto tra generi e autorialità (autorevolezza?) sia stato conflittuale nell’arco della storia del cinema non solo è un fatto ma un nodo contemporaneo non ancora del tutto sciolto. Ma c’è chi di tutto questo se ne infischia e continua a fare il cinema che vuole, al di là del senso di colpa che il sistema, più o meno intenzionalmente, alimenta.
James Robert Jarmusch, quindici lungometraggi all’attivo, saltella da ormai quasi quarant’anni tra stili e linee cinematografiche che ne fanno un anarchico della settima arte, senza risparmiarsi incursioni molto personali in generi come il road-movie, il western e, di recente, l’horror, con titoli, tuttavia, mai rigorosamente riconducibili agli stilemi d’appartenenza (Daunbailò, Dead Man, Solo gli amanti sopravvivono). Poi arriva The Dead Don’t Die e taglia corto: usa I Generi, senza mediazioni e variazioni sul tema, li butta in un calderone, e gira il mestolo ridendo sguaiatamente in una sorta di manifestazione d’amore per il cinema, nei modi di un godereccio giullare – non è un caso la sua vicinanza con il nostro Benigni.


Sinossi: a Centerville, senza motivazione alcuna, i morti tornano in vita e invadono lentamente la città. Gruppetti di esseri umani affrontano questo arrivo come possono, goffamente, stupidamente, nervosamente. Ma non c’è scampo.
E’ così che, a suo modo, Jim affonda le mani nella commedia, nell’horror, nel pulp, nel grottesco e perfino nella fantascienza, e sforna un pastiche che, forse, è molto più di un ibrido arlecchino. Siamo di fronte a una novità o è il sintomo più diffuso di una crisi dei generi, a corto di frecce al loro arco?
La contaminazione sempre più spinta affiora negli ultimi anni dalle maglie del cosiddetto cinema underground, stimolando anche autori più noti e acclamati. Se da un lato il mash-up commedia-horror si era timidamente e di rado affacciato dagli schermi sin dai tempi de La piccola bottega degli orrori di Corman, è altrettanto vero che mai come negli ultimi anni i tentativi di rigenerare il cinema di genere unendo le forze di più filoni cinematografici si sono spinti così avanti.
Mentre scherza coi generi permettendosi del metacinema, non li umilia ridicolizzandoli, ma li rende partecipi di un nuovo carosello cooperativo di vecchi “amici d’infanzia”, che sembrano emergere dalla gloriosa age d’or a ricordarci quanto possano ancora divertirci in modo sano, senza fronzoli e metafore (a meno di non cercarle a tutti i costi), limpidi e diretti al cuore. Il genere è morto nelle sale, ma Samuel Fuller ritorna dalla tomba per rivendicarlo, mentre la buffoneria grottesca dilaga attorno, nei personaggi, surreali, dalle comunicazioni sospese, astratte, che reagiscono in modi irrealistici ai non-morti come si farebbe con delle grosse piattole o sanguisughe. Jim Jarmusch rievoca il suo cinema più vecchio – alla fine The Dead Don’t Die non è
E’ in questo suo focalizzare sui generi senza snaturarli la nota più preziosa di questo lavoro, che risulta in un equilibrio nuovo e personale, forse troppo difficile per lo spettatore tipico delle sale. E The Dead Don’t Die non soddisfa l’appassionato horror perché ce n’è poco e non fa paura, tantomeno il fan della commedia perché si ride “diverso”, e neanche il cacciatore di ibridazione goliardica perché non è il cinema di Sion Sono. The Dead Don’t Die, paradossalmente, è più vicino al teatro – unità di tempo e luogo, gruppetti di personaggi in “cinema da camera” – e, potenz
Jarmusch forse non vuol sostenere nulla, ma ci piace immaginare che, come ogni amante genuino del cinema, ami salire sopra un ottovolante ed essere sparato in aria a divertirsi, e in tal senso senta la necessità di reclamare ancora lo spazio e la dignità che a certa produzione vengono talvolta negati.
No, i generi non sono morti – hanno forse solo il fiatone -, anche se la distribuzione ne mostra questa di faccia rilasciando nelle sale
robaccia come fossero discariche d’immondizia.
Nel frattempo c’è il cinema thriller spagnolo (El Habitante incierto, Contratiempo, El cuerpo), l’extreme horror francese (Alta tensione, Martyrs, À l’intérieur), la commedia surreale di Quentin Dupieux e la fantascienza di Primer, Triangle e Coherence.
Forse è poco, ma è ancora tanto.