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THE FABELMANS | Il cinema secondo Steven

Regia: Steven Spielberg

Anno: 2022

Produzione: Stati Uniti d’America

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva

La prima cosa che colpisce della nuova opera di Steven Spielberg è, indubbiamente, il titolo (o, se vogliamo, il cognome della famiglia protagonista). E ciò non soltanto per il fatto che questo costituisce, come per ogni film, un biglietto di presentazione che giunge temporalmente prima di qualsiasi immagine, suono o vicenda, ma anche – nel caso specifico – per il suo significato puramente lessicale: “l’uomo delle favole”. Una vera e propria firma autografa, quindi, nonché – e ancor più – una cosciente (auto)affermazione delle proprie caratteristiche e del proprio valore. Poiché è a tutto questo che pensiamo quando si parla di Spielberg e dei suoi lavori: di un cineasta che ha creato e perpetuato un’idea di cinema del divertimento e del sogno, una sorta di moderna lanterna magica con la quale stupirsi e stupire, attraverso il gioco e l’invenzione. Basti citare, a questo proposito, la saga di Indiana Jones o il franchising di Jurassic Park, nonché la fantascienza di Incontri ravvicinati del terzo tipo e di E.T. l’extraterrestre. Una predilezione per l’immaginario e l’avventuroso (e talvolta il fumettistico, Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno) che non ha impedito a Spielberg di affrontare tematiche più profonde quali quelle toccate, ad esempio, ne Il colore viola, Schindler’s List e Munich.

The Fabelmans img 1 chiara e beppe

Con The Fabelmans il regista ha voluto girare, scelta assai in voga, un film sul cinema e – nello specifico – su se stesso e su come ha ideato, sviluppato e vissuto la propria idea di cinema.

The Fabelmans img 2 chiara e beppe

Fortemente autobiografico senza essere propriamente un’autobiografia, il film descrive gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle), della vita in famiglia e del suo percorso di crescita, con particolare attenzione al rapporto con i genitori Mitzi e Burt (Michelle Williams e Paul Dano) che lo portano al cinema sin da piccolo. La visione de Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille impressionerà il piccolo Sam per sempre, con la scena dell’avvicinamento – prima – e del deragliamento – poi – del treno, che se da un lato è un omaggio – per interposto film – alla locomotiva dei fratelli Lumière, dall’altro lato è la causa di molte notti agitate del bambino, che ripercorre infinite volte – con la memoria – le immagini dello spaventoso incidente.

Da questo, che costituisce a tutti gli effetti l’incipit della vicenda e la pietra angolare su cui poggia il film, prende avvio il discorso sulla visione che il regista ha della settima arte e del percorso che l’ha portato ad essere l’autore che oggi tutti conosciamo. E quindi il cinema (anche) come elaborazione psicanalitica delle proprie paure (l’incidente ferroviario visto in sala) e delle vicende personali (il divorzio dei genitori e le difficoltà di inserimento tipiche dell’adolescenza). E, ancor più, la capacità della macchina da presa di far scorgere ciò che normalmente non è visibile, come un Sam già adolescente è costretto ad imparare quando scopre la relazione fra la madre e l’amico di famiglia Benny (Seth Rogen) visionando il piccolo film della festa in famiglia montato per tirar su il morale della madre depressa.

Sullo sfondo delle vicende famigliari scorre, quindi, una lezione di cinema secondo Steven, espressa anche attraverso il susseguirsi delle varie macchine da presa e dei macchinari per il montaggio, la supervisione e la sincronizzazione del girato utilizzati da Sam per il suo apprendistato. Il tutto avvolto in un’aura nostalgica per il regista e quasi magica per lo spettatore, anche se la vicenda si colloca in un contesto famigliare che vive una crisi importante ma in cui quasi tutti, secondo un lessico ricorrente in Spielberg, sono – in fondo – buoni: il padre Burt, la madre Mitzi e Benny. E financo l’atletico (e antisemita) compagno di scuola Logan (Sam Rechner) che Sam trasmuta nelle riprese di una giornata di festa sulla spiaggia, trasformandolo quasi in un eroe classico (a ribadire il potere, anche manipolativo, del cinema…).

Due le scene, già destinate all’iconicità, che restano nella memoria a ribadire la poetica del film e del regista: quella del piccolo Sammy che guarda ancora una volta le immagini dell’incidente – simulato con il trenino avuto in regalo (e filmato) – proiettandole sulle mani affiancate a formare uno schermo e quella del vecchio John Ford (un incredibile cameo di David Lynch) che accende lentamente il suo sigaro mentre si appresta a impartire una fulminante lezione di cinema all’aspirante regista. Pura poesia (e puro cinema).

The Fabelmans img 3 chiara e beppe
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