associazione di promozione sociale

[SPECIALE] THE WHALE | L’insostenibile pesantezza dell’Essere

Regia: Darren Aronofsky

Anno: 2022

Produzione: Stati Uniti d’America

una recensione a cura di Alessandro Cellamare

Un motivo.
C’è sicuramente un motivo per il quale, a distanza di giorni dalla visione dell’ultimo film di Darren Aronofsky, una sequenza e una situazione continuano a riemergere nei miei pensieri, ossessivamente. Non sono certo che esse posseggano una rilevanza critica, e tuttavia voglio provare a crederlo, anzi scriverne, consapevole che il miglior cinema di Aronofsky passi per viscere, sensi e fisicità. Seguirò le tracce in un flusso di coscienza come Eddie Jessup in Altered States, permettendomi persino la poco elegante scrittura in prima persona.
Solo per vedere che succede.

LA SEQUENZA

Nella prima mezzora del film un ammasso gigantesco di carne arranca verso l’angolo doccia. Sembra un blob che ha catturato un uomo di cui restano pochi residui somatici. La creatura entra, si lava, copre l’intera inquadratura in un’immagine livida accompagnata da una melodia lenta, minimale e quasi ossessiva che rende tutto pesante. Ogni cosa è pesante come piombo: l’acqua, l’ambiente ristretto della doccia, il formato 4:3, i colori, i suoni, la creatura stessa. È il disegno di un dolore fatto di cose che non sappiamo – e non sapremo mai del tutto -, e che non lascia scorgere vie di fuga. C’è l’orrore, e la pietà che dall’orrore emerge, da sé, senza bisogno di narrazione: la sequenza è bastante. Da quel momento non riuscirò più ad abbandonare il ritratto di quell’uomo intrappolato nella sua prigione di carne, come una scultura incompiuta nella pietra. La storia ruoterà per tutto il tempo attorno a quel gigantesco pianeta da cui mi sento attratto come una luna e al tempo stesso respinto. A nulla valgono i momenti di respiro quando dalla porta entrano ed escono personaggi che ci ricordano di una realtà “fuori”, dove poter scappare e far scappare l’uomo-carne, perché chi entra porta conflitti, non salvezza, il protagonista tenta di muoversi ma non ce la fa, la sua anima tenta di “muoversi verso gli altri” ma non ce la fa, lo spettatore cerca di allargare l’inquadratura come nel film di Xavier Dolan ma non ce la fa. E di nuovo quella musica, quei colori, il crollo disperato dell’uomo-carne che mangia, si ingozza, cade a terra, si rialza, i suoi occhi grandi, Moby Dick.

LA SITUAZIONE

Qualcuno bussa alla porta. È una voce, è l’uomo delle pizze. L’uomo-carne gli dice gentilmente di prendere i soldi e lasciare tutto fuori. L’uomo-carne dopo un po’ esce all’aperto, come una creatura di Lovecraft, prende la pizza e la porta dentro. La sequenza si ripete un altro giorno. Bussano alla porta. La voce è solo una voce, senza peso perché ce l’ha tutto lui – il peso -, l’uomo-carne: la leggerezza da una parte, la pesantezza dall’altra. La voce cerca un contatto, è umana e curiosa. L’uomo-carne vuole le stesse cose ma ha paura, ha vergogna e sa che non c’è speranza, lì fuori. La terza volta l’uomo delle pizze attende dopo la consegna, sulle scale, vuole vedere con chi parla, la voglia di relazione è troppo forte. L’uomo-carne esce. L’uomo delle pizze lo vede, lui vede “la voce”, io vedo l’uomo delle pizze e ci guardiamo, tutti e tre, da punti di vista diversi. Prendiamo forma e ne usciamo distrutti, delusi. Tutti.
È vero, ha ragione l’uomo-carne: non c’è salvezza.

IL FINALE

Nel suo guscio coriaceo, fatto di dolore e assenza di speranza, l’uomo-carne lotta prima di morire, usa la sua massa e a spintoni apre una piccola crepa, l’allarga con le mani come la creatura di Hatching. È poco, ma della luce entra e fa in tempo a raggiungerlo prima che lui prenda il volo e si trasformi in un bagliore, e i titoli di coda si staglino neri su bianco. Solo un assaggio di pace, ma quel tanto che basta per un pianto senza redenzione. Almeno dello spettatore.
Almeno il mio.

The Whale locandina 2 ale c.
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