ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

TOHORROR FANTASTIC FILM FEST 2022 | Quattro passi nel delirio (+ uno)

una breve incursione al 22° TOHORROR Fantastic Film Fest a cura di Elena Pacca

Raquel 1:1 - Mariana Bastos, 2022

Raquel 1 1 elena

Furore religioso che nulla perdona a dispetto del precetto cristiano. Il male viene individuato, indicato e stigmatizzato perché non possa corrompere l’integrità di una comunità chiusa. La donna/strega portatrice del male e delle sventure che ne conseguono. La paura cieca e ottusa per tutto ciò che è diverso. La paura che diventa corazza, corporazione di intenti e di superstizioni, bacino ampio e malevolo di un conservatorismo che pare anacronistico e invece è radicato e diffuso più di quanto si possa pensare. Una presa di coscienza solitaria che è anche richiamo, missione, attraverso un passaggio nella natura che ricorda l’ascesa delle giovani collegiali ad Hanging Rock. Un’innocenza per nulla sprovveduta che ha già dovuto fare i conti con la violenza e che subisce purtroppo anche quella messa in atto da una comunità che vuole solo far quadrato sui propri piccoli e meschini privilegi. Il tentativo di riscrivere alcuni passi della bibbia per restituire dignità e valore alle donne. Che saranno invece le più acerrime nemiche, che scateneranno perfidia e ostracismo incatenate, loro malgrado, a un retaggio patriarcale.

Tiny Cinema - Tyler Cornack, 2022

Tiny Cinema elena

Film a episodi che in realtà è uno slapstick scatenato e irriverente attraverso l’assurdo che si fa probabile e reale. Condotti per mano da Paul E. Ford attore disabile con sguardo luciferino e voce altrettanto inquietante che guardandoci negli occhi ingaggia con noi una sfida e la vince. Divertente, scanzonato, provocatorio, tutto concorre a farci dire che no, non è possibile che accada e poi quel confine tra il possibile e l’impossibile si stira e si fa così sottile da far vacillare le nostre certezze. Chi non ha mai desiderato qualcosa che poi si è rivelata il peggior incubo? Perché “We don’t believe in dreams, we believe in nightmares!”. Strani giochi tra amici e una frase che scatena la follia, porno deliri e delivery, rapine improbabili per soddisfare gli istinti primordiali tra sottigliezze e vaudeville. E poi lontani echi chissà se voluti – il nano della stanza rossa e l’involucro con il cadavere in riva al fiume – di Twin Peaks. Un mash-up, a tratti greve, che ha il coraggio di non scendere a compromessi.

Megalomaniac - Karim Ouelhaj, 2022

Megalomaniac elena

Il Belgio si conferma terra di storture, perversioni e virate al nero, nell’apparente sonnolenza di una vita da eterna provincia d’Europa. Una storia vera – il caso irrisolto del “Macellaio di Mons”, colui o colei che restituì nell’arco di una ventina d’anni una serie di corpi di donna fatti a pezzi, abbandonati in sacchi della spazzatura lungo la strada – che fa da spunto per la costruzione di una storia barocca, feroce, maledetta, scura, cupa, intrisa di quel sangue che prima sgorga e poi si rapprende e diventa una sorta di stigma, di angioma intracutaneo che àncora il male imprigionandolo nelle viscere di un ambito familiare da cui non è possibile fuggire se non perpetrando l’orrore, seviziando, smembrando e soccombendo giorno dopo giorno ai soprusi che “regala” il posto di lavoro, unico tratto di apparente normalità che è invece nucleo di violenze di genere, di chi stupra e di chi guarda senza fare niente. Un mondo assai ben costruito, dove i demoni si materializzano come in un’incisione di Dürer, e trovano spazio tridimensionale riversandosi sullo schermo con tutti gli umori liquidi del caso. 

Polaris - Kirsten Carthew, 2022

Polaris elena

Anno Domini 2144. Glaciazione postapocalittica, il genere umano è composto soltando da donne. Il linguaggio è scomparso per lasciare posto a urla, grugniti, ringhi feroci, suoni gutturali e onomatopee indistinte. La violenza spietata, sommaria, crudele è all’ordine del giorno. Armi arcaiche e moderne si alternano in un crescendo di sopraffazione, ferocia e brutalità. Una sorta di ritorno alle origini dell’uomo (declinato lungo le tratte del binarismo femminile) che nella desolazione e nel bianco imperante delle nevi, squarciato solo dal rosso del sangue, si abbina ad uno scenario di veicoli ibridi sospinti da non si sa quale energia e da un campionario di abbigliamento invernale un po’ da fast fashion del pellame. Se per Visconti le stelle dell’Orsa erano vaghe, qui l’illuminazione finale che trasla Sumi, la protagonista, nella costellazione guida, ci smarrisce nella ricerca di un senso, anche se questa storia forse un senso non ce l’ha.

Sick of Myself - Kristoffer Borgli, 2022

Sick of Myself elena

“Il narcisismo patologico è un disturbo della personalità caratterizzato da egocentrismo, mancanza di empatia e una percezione esagerata della propria importanza”.
Questa premessa per sintetizzare la personalità di Signe, la protagonista, cameriera in un Coffee Shop di Oslo, fidanzata di Thomas, emergente artista cleptomane che realizza composizioni parascultoree assemblando ciò che ruba, per lo più sedie e poltrone di design, settore in cui il mondo scandinavo ha da sempre primeggiato con esemplari ormai iconici – afflitto anch’egli da narcisismo, ma non in egual misura – di cui Signe subisce e patisce la spavalderia, a volte ottusa.
Il problema di Signe, manifestato sin dalle prime scene, è quello della paura dell’invisibilità, del passare mestamente inosservata, nascosta dalla coltre di nebbia che sembra avvolgere la sua vita di tutti i giorni. Per rendersi visibile, non basta il sangue vividamente rosso che si è allargato sulla sua camicia bianca, copiosamente sgorgato dalla donna morsa al collo da un cane che lei – unica fra tutti – ha soccorso. Ognuno è troppo preso da se stesso per badare a lei. Noi stessi spettatori, siamo messi fuori gioco dall’indisponente antipatia di Signe che fa di tutto per non ingraziarsi nessuno.
Cosa c’è quindi di più esposto alla vista altrui se non la propria pelle?
La pelle che è, al tempo stesso, punto di contatto, barriera e frontiera tra noi e gli altri. Che può essere semplice involucro, o maschera, o corazza difensiva. Che è superficie profonda e, al tempo stesso, mappa percettibile per decrittare il proprio io. Oppure tela per disegnare la nostra storia come un tatuaggio, e Signe, a un certo momento, sottoporrà la propria pelle a una narrazione del sé morbosamente attrattiva e altamente repulsiva, attraverso la smodata assunzione di un farmaco che causa gravi e documentate lesioni e deturpazioni alla pelle.
L’aspetto di Signe, manifestazione di una discesa agli inferi priva di controllo, è fattore turbativo e perturbante e innesca un gioco perverso – innervato da una sorta di sindrome di Münchhausen – costituito da un’estetica deviante, sbocchi di sangue e ricoveri, una spettacolarizzazione dell’inclusività a botte di manleva in caso di pericolo, un’indifferenza congenita che viene monetizzata da quante visualizzazioni e da quanti like riceve un post o da quanto una notizia venga ampiamente e immediatamente surclassata da quella concomitante e più eclatante del padre di famiglia che stermina la famiglia, agghiacciante e rassicurante al tempo stesso perché vissuta come altro da noi.
Glaciale, disturbante, paradossale, provocatorio, cattivo. Da vedere.

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