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[SPECIALE] TRIANGLE OF SADNESS | Alla deriva, in compagnia di una sorte bizzarra e cattiva

Regia: Ruben Östlund

Anno: 2022

Produzione: Svezia, Germania, Francia

una recensione a cura di Elena Pacca

Se in The Square avevamo un quadrilatero a delimitare uno spazio e a confinare un mondo entro il quale si doveva aver fiducia nel prossimo, qui la geometria è rappresentata dai tre atti/lati di un film che fatica a essere considerato un unicum nonostante alcuni personaggi (i top model nonché fidanzati Carl/Harris Dickinson e Yaya/Charlbi Dean) attraversino tutti gli episodi e traghettino (malamente) la loro storia d’amore da un capitolo all’altro.

Östlund ha una missione precisa e dichiarata: scardinare l’apparenza, stupire, scioccare, provocare lo spettatore tirando, come un cavo del bungee jumping, la capacità di resistervi, di non girare la testa dall’altra parte. L’elasticità della nostra visione si tende o si rilascia secondo coscienza o secondo il livello immersivo che ciascuno di noi riserva a storie che poco potrebbero toccarlo o, in alcuni casi, respingerlo. La moda e la sua vacuità, sintetizzata nella gag iniziale del giochetto del repentino cambio espressivo che vira dall’imbronciato Balenciaga al sorridente H&M, dal too expensive al very cheap, oppure la lite tra i fidanzati, in quanto lei guadagna assai più di lui, ma in forza della consuetudine di genere che prevede che debba spettare sempre all’uomo fare il gesto di metter mano al portafoglio e pagare le cene a due, sono elementi (primo atto) che sembrano indirizzare il film in un certo modo. Modo che cambia rotta per dirigersi, invece, verso altri lidi (secondo atto) grazie all’escamotage della vincita da parte di lei, che oltreché top model è anche influencer, di una crociera di extra lusso, il cui approdo (terzo atto), è quello dei pochi naufraghi superstiti, sull’isolotto apparentemente deserto.

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Östlund dilata gli intenti del film precedente e, in una sorta di delirio performativo, butta parecchia carne al fuoco e confeziona un’opera che ha dei tratti divertenti, altri molto meno, e che sembra autoalimentarsi nella rincorsa a spararla ancora più grossa, ammorbandoci oltre misura di burrascosi conati di vomito e torrenziali rigurgiti escrementizi, lungo il piano non solo metaforicamente inclinato dello yacht fuori controllo e in balia della tempesta.

Gli attori, più che immedesimarsi nel ruolo, sembrano impersonare le caricature di una visione stereotipata di quel ruolo. E si insinua il sospetto di assistere non a un’opera sinceramente autentica pur negli eccessi, ma dannatamente di mestiere. Il che non vuol dire che un film necessiti di una matrice verista, ma di un credo autentico che non infici la percezione dello spettatore. Così, come la capo steward Paula/Vicki Berlin e la crew della nave da crociera si preparano alla recita dell’accoglienza dei ricchissimi ospiti a cui tutto è dovuto, a cui ogni capriccio è concesso, compreso l’infrangere le regole facendo fare il bagno in piscina a una cameriera durante il turno di lavoro, Östlund sembra allestire per lo spettatore una recita a soggetto in cui si spara a salve.
Certo, a tratti godibile – il duetto tra Thomas Smith/Woody Harrelson, il capitano della nave americano di letture colte e fervente marxista che vive di persona la contraddizione tra ciò che vorrebbe essere e ciò che, suo malgrado, rappresenta e che, forse, in un ultimo sussulto di indignazione vorrebbe solo starsene rinchiuso per tutto il tempo a ubriacarsi in cabina, ma dovrà uscire e rendersi presentabile per la tanto agognata cena di gala che deve concedere ai partecipanti, e Dimitry/Zlatko Buric, il greve e volgare oligarca russo neocapitalista che dalla caduta del comunismo ha tratto insperati e smisurati guadagni – su tutti.

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E infatti nel terzo capitolo, quando, sovvertiti i ruoli, la “proletaria” addetta alle pulizie Abigail/Dolly De Leon assume il comando poiché è l’unica in grado di procurare il cibo, la rivalsa non è dettata da una coscienza di classe (Marx peraltro lo legge solo il comandante abbiente) ma si risolve in una meschina solitaria vendetta che ribalta i rapporti di potere e nulla ha di rivoluzionario – pleonastico rifiutare i Rolex e le ricchezze inservibili a monetizzare qualunque vantaggio sull’isola – ma atteggiandosi a capo assoluto si accaparra il prestante Carl sottraendolo alla fidanzata, per assecondare i suoi appetiti sessuali nella scialuppa di salvataggio trasformata in alcova.

Siamo assai distanti dallo sguardo di un altro autore “nordico” che peraltro non gode degli stessi favori delle giurie, quel Nicolas Winding Refn, che in The Neon Demon articola sul mondo della moda, sulla sua corruzione e sulla sua dannazione una riflessione dalle caratteristiche ben più profonde e ficcanti, oltreché scomode e raccapriccianti. O – per restare a chi della provocazione faceva uno dei suoi punti di forza – da quel Marco Ferreri che è lontano anni luce, non solo in senso cronologico, ma per la portata di sovversiva aggressione al mondo della classe dominante, con cui metteva in scena, con assoluta convinzione, il suo estremismo radicale e iconoclasta.

Östlund aggiunge dunque un altro tassello ad effetto alla sua filmografia sempre più ridondante, dove il troppo tracima per ricoprire tutto di un eccesso tracotante ed edonistico che assomiglia un po’ al cosiddetto fumo negli occhi, a quella satira che satira non è, ma compiaciuto cinismo che male non fa.

[Dopo i titoli di coda, più che quello spazio in mezzo agli occhi che, subendo la comparsa delle prime rughe d’espressione, sancisce la perdita di appeal e, conseguentemente, di opportunità lavorative per i modelli in carriera (così è definito il “triangle of sadness”), un velo di tristezza scende a considerare l’interprete femminile, Charlbi Dean, morta pochi mesi dopo la Palma d’oro a Cannes che fa il paio con le morti “ingiuste”, improvvise e immotivate degli attori giovani, dal ventiseienne Heath Ledger premio oscar al miglior attore non protagonista ne Il cavaliere oscuro di Christopher Nolan, al giovanissimo, appena 16 anni, Vladimir Garin de Il ritorno di Andrej Zvjagincev, Leone d’oro a Venezia]

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