ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

[SPECIALE] TRIANGLE OF SADNESS | Decadenza e immortalità di un sistema amorale

Regia: Ruben Östlund

Anno: 2022

Produzione: Svezia, Germania, Francia

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva
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Con Triangle of Sadness, Ruben Östlund chiude il trittico di opere dedicate alla critica dell’odierna società borghese, già avviata con i precedenti film premiati a Cannes: Forza maggiore (Un Certain Regard) e The Square (Palma d’oro). Ma se nel primo ad esser messa sotto il microscopio era una famiglia “perfetta” – dalla quale esalavano un conformismo e una fragilità fatti implodere da un evento inatteso – e nel secondo ad esser ridicolizzato era un mondo dell’arte nel quale la superficialità e l’ipocrisia della borghesia svedese la facevano da padroni (come descritto da Thomas Vinterberg ne Il sospetto), nel nuovo film lo sguardo del regista lascia il nord Europa, si allarga all’intero globo terracqueo e nulla riesce a salvarsi.

Il capitolo uno (Carl e Yaya) è la naturale prosecuzione di The Square e illumina un mondo – quello dei modelli e della pubblicità glamour – vacuo e indissolubilmente legato all’immagine e al denaro. Ciononostante, esso costituisce un coerente prologo del capitolo due (Lo Yacht) in cui la vita lussuosa e irresponsabile di un gruppo di ultra-ricchi è messa alla gogna con tinte forti e a tratti grottesche.

Nessuno può riscattarsi su una nave in cui anche l’equipaggio esprime plasticamente l’irriducibile separazione fra ricco e povero e fra esclusivo e popolare, ben rappresentato dalla giustapposizione dei due equipaggi: quello che si muove in “alto” – giovane, bello, di bianco vestito, baciato dal sole e votato a garantire il benessere e i capricci dei ricchi ospiti paganti – e quello che opera in “basso” – più anziano, poco avvenente, multietnico, oppresso dalla luce dei neon e ovviamente di nero vestito – tenuto a svolgere lavori meno accattivanti come la pulizia dei locali del vascello.

Nella zona chic della nave, quindi, totale dedizione al piacere di russi produttori di fertilizzante naturale (letame, insomma), di britannici fabbricanti di mine a frammentazione e di nordici miliardari liberatisi del compito di gestire l’azienda. E, ovviamente, dell’onnipresente influencer Yaya (Charlbi Dean) e del suo fidanzato Carl (Harris Dickinson), in crociera premio grazie al moderno “postare” la propria vita su ogni tipo di social.

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Lo spaccato di un’umanità squallida e senza meta, priva di contatti con il mondo “sotterraneo” al quale Östlund fa prendere il sopravvento grazie, come in altri casi, ad un evento imprevisto che rompe lo status quo.

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L’innesco è costituito, in questo caso, dalla geniale e fallita figura del comandante Thomas Smith (Woody Harrelson) che pratica l’opposizione al capitalismo citando Lenin e Marx e governando una nave da 250 milioni di dollari, in barba a una qualsiasi coerenza politica. Ma capace, con inconsapevole (o forse diabolica?) perfidia, di fissare la “cena del comandante” nell’unica serata di mare in tempesta, che provoca ogni genere di crisi gastrointestinale ai ricchi ospiti, sui quali il regista indulge con soddisfatta cattiveria, quasi si trattasse – l’ovvio risultato dei malesseri – dell’unico prodotto che una società borghese e capitalista in disfacimento può ancora generare.

Una potente metafora, conscia o inconscia che sia. E dell’ultimo prodotto sembra davvero trattarsi per il commerciante di letame e per l’imprenditore scandinavo che insieme alla coppia di giovani modelli, a una donna paraplegica affetta da afasia e a un’addetta alla pulizie, naufragano su un’isola deserta dopo un assalto dei pirati.

E nel capitolo tre (L’isola) sorge una nuova società, guidata dalla donna delle pulizie in virtù della sua abilità nel pescare e accendere il fuoco, che le consente di sottomettere un gruppo di ricchi incapaci di fare alcunché e che ben accettano di affidarsi all’intraprendente donna, rispettata e blandita fino al soddisfacimento sessuale da parte del modello Carl, inabile a qualsiasi azione utile.

Nessuna solidarietà nasce, però, fra i sopravvissuti, quasi che la spinta a liberare gli istinti di sopraffazione e manipolazione tipici della società capitalista, sia qualcosa a cui è impossibile sottrarsi. Il finale del film ne è un’evidente e atroce conferma: trovato un resort sull’altro versante dell’isola – una suggestione da Isola dei Famosi dietro le quinte o da Lost in cui un ascensore apre misteriosamente le porte come ad invitare Yaya e la nuova leader a mettersi in salvo – non c’è spazio per un ritorno al mondo precedente e una quasi mostruosa Abigail (Dolly de Leon) è pronta a uccidere la modella pur di mantenere – da neonata leader della piccola società – lo status appena conquistato.

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In conclusione, un quadro a tinte fosche della nostra civiltà dal quale l’opinione del regista emerge in modo chiaro: non ci sono speranze né alternative al modello dominante, certo squallido e decadente ma del quale – però – tutti adottano e perpetuano i meccanismi. A partire dal comandante comunista, che si limita a citare i classici del marxismo nel patetico ma esilarante confronto con il miliardario russo Dmitrij (Zlatko Buric) – e da Abigail, la cui capacità di soddisfare le esigenze primarie del gruppo costituisce il propellente per l’ascesa nella gerarchia dei naufraghi. Nessuna novità – quindi – per il futuro, indipendentemente dal concreto realizzarsi o meno dell’omicidio finale.

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