ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

[SPECIALE] TRIANGLE OF SADNESS | Travolti da un insolito destino fatto di vomito e lotta di classe

Regia: Ruben Östlund

Anno: 2022

Produzione: Svezia, Germania, Francia

una recensione a cura di Deborah Gallo

Il triangolo della tristezza, ci mette subito al corrente Östlund, è quella porzione di pelle che si trova in mezzo alle sopracciglia e che corrughiamo ogni volta che siamo tristi o arrabbiati. I brand di lusso richiedono esplicitamente ai modelli di ingrugnare la loro espressione, di rabbuirsi, perché felici come i fotomodelli di H&M lo possono essere tutti. Questo non può che voler dire che il turbamento e la tristezza vanno di moda più di quanto credessimo, che ci lasciamo sedurre dallo spleen e dalla malinconia. Östlund rappresenta abilmente tutto ciò in Triangle of Sadness, pellicola dai toni drammatici e grotteschi al tempo stesso. 

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Così come Marco Ferreri fece ne La grande abbuffata, in Triangle of Sadness Östlund si prende gioco, attraverso immagini grottesche ed evocative, e in maniera assolutamente rock, della classe sociale borghese e di alcuni dei suoi aspetti più emblematici come il buon cibo, la nullafacenza, la vanità, il sesso.

Il regista sceglie la chiave dell’irriverenza per raccontare la quotidianità tediosa dell’uomo ricco, il mondo ovattato ed ipocrita che vive, quella felicità illusoria a cui tanti, ingannati dall’apparenza, aspirano. In Triangle of Sadness Östlund riesce a capovolge la visione comune della classe capitalista e lo fa in maniera insolente, come nei confronti di chi non è ritenuto degno di ossequio e venerazione, sbeffeggiandola mediante immagini paradossali, al limite della decenza.

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Ad esempio, la scena in cui, dopo una forte mareggiata, la moglie del miliardario russo si ritrova a navigare, letteralmente, nei propri escrementi e nel proprio vomito è drammatica e ripugnante, ma risulta al tempo stesso divertente e spassosa, senza ombra di dubbio: kafkiana. Il regista riesce nell’impresa di ridicolizzare sapientemente la classe capitalista, che solitamente si circonda di sfarzo eccessivo e bellezza, immergendola, invece – nel vero senso della parola – nei propri escrementi e rendendola, in questo modo, deplorevole e ridicola. Una mera e riuscita provocazione alla società dei consumi, allo spreco e ai vizi che rendono gli uomini schiavi di se stessi.

Nella terza parte del film, chiamata L’isola, la nave naufraga su un’isola deserta e i milionari devono riuscire a cavarsela con le proprie forze, fallendo miseramente. Ma Östlund è in grado di capovolgere, ancora una volta, la situazione. Gli ospiti dello yatcht ormai inabissato, sporchi e ridotti a naufraghi, spogliati di ogni infrastruttura sociale, sono obbligati a sottostare al matriarcato imposto da Abigail, un’inserviente, l’unica in grado di procacciare del cibo, pescare, accendere il fuoco. È innegabile il parallelismo con le vicende di Gennarino Carunchio e Raffaella de Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto. Abigail, come Gennarino, rivendica la sua posizione sociale di donna e lavoratrice e dimostra di essere l’unica capace a portare avanti la vita sull’isola. Per la prima volta, Abigail non riveste un ruolo subordinato ma è finalmente a capo della struttura sociale che ha creato, e non è disposta a lasciare il potere, giustamente acquisito e rivendicato, per tornare alla vita ordinaria di sempre. Così come fece Lina Wertmüller, Östlund ribalta abilmente l’ordine delle cose, genera un caos visivo che ci permette di osservare la classe sociale borghese sotto un aspetto insolito, drammatico, tragicomico. In un attimo ci si ritrova travolti, insieme ai protagonisti, da un insolito destino, da una lotta di classe avvenuta nell’azzurro mare, forse d’agosto.

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